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STORIE COLLEGATE: Caminada, Dana, Levi, Lopez, Luzzatto, Molho, Pardo Roques, Schwarz
Testo tratto da Emanuele Edallo, “Breve introduzione storica sulla politica antiebraica fascista”, in “… ma poi, che cos’è un nome?” Una mostra sul censimento degli ebrei a Milano nel 1938, catalogo della mostra, Fondazione CDEC, Milano, 2018.
Le prime avvisaglie di un cambiamento di atteggiamento da parte di Mussolini, nei confronti della minoranza ebraica presente in Italia, si verificarono già a partire dalla metà del 1936. Fu, tuttavia, il 1938 l’anno decisivo nel quale il fascismo elaborò una vera e propria politica razzista, sin dall’inizio dell’anno si susseguirono diverse operazioni volte a preparare la svolta antisemita e la sua accettazione nell’opinione pubblica.
La prima presa di posizione ufficiale di Mussolini nei confronti dell’ebraismo italiano si ebbe con l’Informazione diplomatica n. 14 del 16 febbraio 1938, nella quale il governo assicurava di vigilare sugli ebrei giunti recentemente in Italia. Con il documento Il fascismo e i problemi della razza del 14 luglio 1938 – meglio conosciuto come “Manifesto della razza” – fu introdotto anche in Italia il concetto di “razza” su base biologica, con cui si affermava l’esistenza di una “pura razza italiana”. Secondo i principi delle teorie razziste, alla “razza ariana” si contrapponeva la “razza ebraica”, diversa e biologicamente inferiore.
Il 22 agosto 1938, il regime effettuò il censimento degli ebrei italiani e stranieri presenti sul territorio italiano; si trattò della prima rilevazione basata non sulla religione ma sulla “razza. A settembre furono emanati i primi provvedimenti di legge nei confronti degli ebrei residenti in Italia: con il RDL 5 settembre 1938 n. 1390 Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, studenti e insegnanti ebrei furono espulsi da tutte le scuole di ogni ordine e grado; con il RDL 7 settembre 1938 n. 1381 fu vietato a tutti gli ebrei stranieri presenti in Italia, che avessero ottenuto la cittadinanza dopo il 1 gennaio 1919, di “fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell’Egeo”. Con il RDL 17 novembre 1938 n. 1728 fu fornita la definizione legale di “appartenente alla razza ebraica”; vennero proibiti i matrimoni tra cittadini di “razza ariana” e cittadini di “altra razza”; fu stabilito l’obbligo di denunciare la propria appartenenza alla “razza ebraica”, da annotare nei registri dello stato civile e della popolazione; furono definiti gli ambiti della persecuzione; vennero illustrate le disposizioni non applicabili a chi, in possesso di benemerenze – fondamentalmente titoli e riconoscimenti di carattere militare e politico – avesse richiesto e ottenuto la cosiddetta “discriminazione”. A partire da questo momento, iniziò l’espulsione degli ebrei dal PNF, dagli impieghi pubblici, dall’esercito, dal mondo culturale, dalle libere professioni, dalle amministrazioni delle banche di interesse nazionale e delle imprese private di assicurazione; si avviò la progressiva limitazione delle attività commerciali, degli impieghi presso ditte private e delle iscrizioni nelle liste di collocamento al lavoro.
Subito dopo l’annuncio dell’Armistizio con gli Alleati, (8 settembre 1943), l’occupazione militare tedesca della Penisola segnò l’inizio degli eccidi e delle deportazioni degli ebrei italiani da parte dei nazisti e degli alleati italiani della Repubblica Sociale Italiana (RSI). Con l’Ordine di polizia n. 5, emanato dal Ministro dell’interno della RSI Guido Buffarini Guidi, fu decretato l’arresto degli ebrei di tutte le nazionalità, il loro internamento – dapprima in campi provinciali e poi in campi nazionali – e il sequestro di tutti i loro beni.
L’abrogazione della legislazione razzista fascista fu lunga e non priva di ostacoli. Il primo provvedimento, voluto dagli Alleati per le zone dell’Italia liberata, fu il RDL 20 gennaio 1944 n. 25 Disposizioni per la reintegrazione dei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica e/o considerati di razza ebraica. Con il Decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1944, n. 252 venne disposta l’entrata in vigore del RDL 20 gennaio 1944 n. 26 riguardante la reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri considerati di “razza ebraica”.
La Liberazione della penisola dal nazifascismo, annunciata il 25 aprile 1945, permise di estendere l’abrogazione della legislazione razzista a tutto il Paese.

STORIE COLLEGATE: Caminada, Dana, Lopez, Molho
Testo tratto da Enrico Palumbo, Cenni storici sulla scuola ebraica di via Eupili, in CDEC Digital Library.
Per rispondere ai crescenti bisogni di una popolazione ebraica in costante crescita, nel 1928 la Comunità Israelitica di Milano acquistò la villetta di via Eupili 6, nella periferia nord-occidentale della città, dove dal 1929 furono aperti un asilo montessoriano e una scuola elementare, che dovevano subentrare agli ormai insufficienti preesistenti spazi nella più centrale via Disciplini. Nel 1931, l’acquisto della villetta adiacente di via Eupili 8 consentì l’istituzione di un ginnasio-liceo. Nel 1935 l’istituto fu intitolato al rabbino capo di Milano Alessandro Da Fano, che aveva fortemente voluto la scuola.
Nel settembre del 1938, al momento dell’emanazione delle leggi antiebraiche da parte del regime fascista, la Comunità – con il presidente Federico Jarach, il membro della Giunta, Mario Falco, e il nuovo rabbino capo Gustavo Castelbolognesi – decise di partire da questa struttura per accogliere i bambini e i ragazzi che erano stati espulsi dalle scuole del Regno.
I dirigenti della Comunità ascoltarono tutte le famiglie degli studenti e concordarono sulla necessità di evitare che i ragazzi delle superiori fossero costretti a cambiare il proprio percorso di studi: per questo, sul tronco del liceo-ginnasio si innestarono, con opportuni adattamenti, i corsi di liceo scientifico, di istituto magistrale e di istituto tecnico, e a tutto ciò fu affiancata una scuola di avviamento professionale. Si trattava di corsi legalmente riconosciuti dallo Stato, dato che, nonostante la legislazione antiebraica, il regime consentiva l’esistenza di scuole ebraiche e il valore dei titoli di studio da esse rilasciate.
A ricoprire l’incarico di preside fu chiamato Yoseph Colombo, docente di storia e filosofia, che lavorò con un gruppo di professori anche di provenienza universitaria, a loro volta allontanati dalle cattedre a causa della legislazione razzista. Egli avrebbe poi ricordato come l’intento della Comunità fosse stato quello di costituire una “scuola ebraica” e non soltanto una “scuola per ebrei”, pur nel rispetto del pluralismo dell’ebraismo milanese. Perciò si decise di innervare la scuola di elementi di originalità e specificità ebraiche, benché i margini offerti dai programmi scolastici imposti dal regime fossero alquanto ristretti.
La varietà di offerta didattica per un numero elevato di studenti – qualche centinaio – comportò alcune difficoltà nella formazione delle classi: furono organizzati turni per consentire lo svolgimento di tutte le lezioni e furono recuperati tavoli e sedie di fortuna.
Le attività didattiche poterono cominciare il 7 novembre 1938. Il coinvolgimento di artisti a loro volta allontanati dal mondo della cultura in quanto ebrei consentì inoltre alla scuola di organizzare attività culturali e corsi integrativi per gli studenti: tra le personalità coinvolte, vanno segnalati almeno il maestro Vittore Veneziani, direttore del coro della Scala, il musicologo Cesare Valabrega, lo scrittore Sabatino Lopez.
A partire dall’a.s. 1941/42, presso la scuola di via Eupili furono avviati anche corsi a carattere universitario, legalmente non riconosciuti, per dare una prospettiva e una continuità di studi ai ragazzi diplomati.[…]
Con l’8 settembre 1943 “la scuola visse i suoi ultimi, pericolosi momenti di vita, allorché il vicepreside Eugenio Levi riuscì a condurre in porto, con alcuni colleghi e studenti, la sessione autunnale degli esami. Dopodiché le attività della scuola di via Eupili si interruppero fino alla fine della guerra”.
Dopo la Liberazione la scuola poté riaprire, registrando però l’assenza delle molte vittime, tra gli studenti e i docenti, cadute nella rete persecutoria dei nazisti e dei loro alleati della Repubblica sociale italiana. L’offerta didattica rimase la stessa del periodo 1938-1943, salvo i corsi di tipo universitario che furono soppressi: nelle mutate circostanze storiche del dopoguerra, la scuola avrebbe assolto un compito diverso, non più legato all’emergenza della persecuzione, ma alla necessità di contribuire alla ricostruzione della comunità ebraica di Milano. La sua importanza in questo processo è data dalla scelta di molte famiglie di mandarvi i propri figli a studiare: negli anni Cinquanta si superò la cifra di quattrocento studenti frequentanti.
Nel 1961 cominciò il progressivo trasferimento della scuola ebraica in via Soderini, in una sede più ampia e consona alle esigenze educative degli studenti.
[…]

STORIE COLLEGATE: Caminada, Dana, Luzzatto, Molho, Pardo Roques, Schwarz
Testi tratti dal Rapporto generale della Commissione Anselmi per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, aprile 2001
Quando nel dicembre 1957, al termine del suo mandato semestrale di commissario liquidatore dell’Egeli, l’avv. Ercole Marazza scriveva che nessuna fondata previsione poteva avanzarsi circa l’epoca in cui si sarebbe potuta effettuare la chiusura, date le caratteristiche del tutto particolari dei compiti che risultavano ancora da ultimare, sicuramente non avrebbe immaginato che sarebbero stati necessari quattro decenni per arrivare al dicembre 1997 a porre fine all’esistenza dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare (dm 29 dicembre 1997). L’ente era stato istituito nell’ambito dei provvedimenti razziali del 1938 per curare la gestione e la liquidazione dei beni ebraici espropriati in applicazione del rdl 9 febbraio 1939, n. 126. Successivamente la legge 16 giugno 1939, n. 942, aveva affidato al nuovo organismo gli immobili divenuti di proprietà statale dopo che era andato deserto il secondo esperimento d’asta, effettuato a seguito di procedura esecutiva esattoriale. Lo scoppio della guerra aveva aggiunto come ulteriori competenze, la gestione dei beni dei cittadini di nazionalità nemica sottoposti a provvedimenti di sequestro in applicazione dell’art. 20 della l 19 dicembre 1940, n. 1994. Dopo l’8 settembre, sorta la Repubblica sociale italiana, l’Egeli era stato trasferito al Nord e incaricato di ulteriori attribuzioni. Col decreto legislativo 4 gennaio 1944, n. 1, passavano all’ente le aziende industriali e commerciali già dichiarate nemiche dal governo e fino ad allora di spettanza del Ministero delle corporazioni. Il decreto n. 2 della stessa data, inaspriva le misure contro gli ebrei sancendo la confisca totale di tutte le proprietà ebraiche italiane e straniere che entravano pertanto nell’ambito dell’attività dell’Egeli.
In attuazione di quanto previsto dall’art. 12 del rdl del 9 febbraio 1939, n. 126, fu emanato il decreto del duce del 9 giugno 1939, il quale individuava gli Istituti di credito fondiario autorizzati all’esercizio delle funzioni delegate dall’Egeli. … Il Credito fondiario della Cassa di risparmio delle provincie lombarde fu uno degli Istituti delegati con decreto 9 giugno 1939 a gestire i beni immobili attribuiti all’Ente, precisamente quelli situati nella regione lombarda.
Nell’immediato dopoguerra gli ebrei che avevano visto i loro i beni espropriati potevano richiederne la retrocessione ai sensi degli artt. 3 e 6 del rdl 20 gennaio 1944, n. 26 reso operativo con dllgt 5 ottobre 1944, n. 252; in base ai sopracitati articoli, gli ebrei possessori di beni trasferiti all’Egeli, oppure i loro eredi, avevano un anno di tempo “dalla conclusione della pace” per chiedere che i beni in questione fossero loro resi, dietro restituzione degli speciali certificati trentennali emessi dall’Egeli. I beni venivano retrocessi al legittimo proprietario anche se erano già stati alienati a terzi.
L’Archivio Storico Intesa Sanpaolo conserva nelle 334 cartelle del Fondo EGELI la testimonianza documentaria della gestione da parte del Credito Fondiario della Cariplo dei beni espropriati, confiscati e sequestrati agli ebrei in Lombardia.
Per una descrizione più completa e per la ricerca all’interno dell’archivio si rimanda alla pagina dedicata all’Egeli nel sito dell’Archivio Storico Intesa Sanpaolo.

STORIE COLLEGATE: Caminada, Dana, Levi, Molho, Pardo Roques
Auschwitz
Bergen Belsen
Testo tratto da Holocaust encyclopedia USHMM Il campo di Bergen Belsen fu stabilito dalle autorità militari tedesche nel 1940. Il campo si trovava a sud delle località di Bergen e Belsen, a pochi chilometri di distanza dalla città di Celle, in Germania. Fino al 1943, Bergen-Belsen funzionò esclusivamente come campo per prigionieri di guerra (POW). Nell’aprile del 1943 il campo venne in larga misura rilevato dall’ufficio dell’amministrazione economica delle SS che convertì la parte rilevata prima in un campo di residenza e successivamente in un campo di concentramento. Il complesso del campo di Bergen-Belsen era composto da numerosi campi, istituiti in tempi diversi. Le tre componenti principali del complesso di Bergen Belsen erano: il campo dei prigionieri di guerra, il “campo di residenza” (Aufenthaltslager) e il “campo dei prigionieri” (Häftlingslager). Il campo dei prigionieri di guerra ha funzionato dal 1940 al gennaio del 1945, il “campo di residenza”, dall’aprile 1943 fino all’aprile 1945, il “campo dei prigionieri” funzionò anch’esso dall’aprile 1943 all’aprile 1945. Nel corso della sua esistenza, il complesso del campo di Bergen-Belsen ha ospitato ebrei, prigionieri di guerra, prigionieri politici, rom, “asociali”, criminali, testimoni di Geova e omosessuali. Quando le forze alleate e sovietiche avanzarono in Germania tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, Bergen-Belsen divenne un campo di raccolta per migliaia di prigionieri ebrei evacuati dai campi più vicini al fronte. L’arrivo di migliaia di nuovi prigionieri, molti dei quali sopravvissuti a evacuazioni forzate a piedi, travolse le scarse risorse del campo. Alla fine di luglio 1944 c’erano circa 7.300 prigionieri internati nel complesso del campo di Bergen-Belsen. All’inizio di dicembre 1944 erano diventati 15.000 e a febbraio 1945, 22.000. Con l’arrivo dei prigionieri evacuati dai campi orientali. Al momento della liberazione del campo, il 15 aprile 1945 furono contati oltre 60.000 prigionieri.Drancy
Testo tratto da Holocaust encyclopedia USHMM Il campo di Drancy prende il nome dal quartiere alla periferia nord-orientale di Parigi in cui fu creato. Fu infatti istituito dai tedeschi nell’agosto 1941 come campo di internamento per ebrei stranieri in Francia. Successivamente divenne il principale campo di transito per le deportazioni degli ebrei dalla Francia. Fino al 1 luglio 1943, la polizia francese gestiva il campo sotto il controllo generale della polizia di sicurezza tedesca. Nel luglio 1943 i tedeschi presero il controllo diretto del campo di Drancy e l’ufficiale delle SS Alois Brunner divenne comandante del campo. Il campo era un edificio a più piani a forma di U che, prima della guerra, la polizia francese utilizzava come caserma. Sia l’edificio che il cortile erano circondati da filo spinato. Il campo poteva contenere fino a 5000 prigionieri. I beni confiscati agli ebrei internati venivano collocati in cinque sottocampi utilizzati come magazzini e situati in vari quartieri della città – la stazione ferroviaria di Austerlitz, l’Hotel Cahen d’Anvers; il magazzino di mobili Levitan; il molo di Bercy; la Rue de Faubourg. Fra l’agosto 1941 e l’agosto 1944 per Drancy passarono circa 70.000 prigionieri; la stragrande maggioranza di essi erano ebrei. Durante il primo anno di esistenza del campo, alcune migliaia di prigionieri riuscirono ad ottenere la liberazione.
Fossoli
Testo tratto da L. Picciotto, L’alba ci colse come un tradimento. Gli ebrei nel campo di Fossoli 1943-1944, Mondadori, Milano, 2010 A Fossoli, frazione di Carpi, fu attivo tra il dicembre 1943 e i primi giorni del dell’agosto 1944, un campo di concentramento in cui vennero reclusi 2844 ebrei arrestati in tutta Italia centrosettentrionale sotto l’occupazione nazista. […] I governanti italiani scelsero infatti di adeguare la propria politica antiebraica a quella dell’alleato-occupante, che aveva già messo in atto autonomamente una serie di retate in diverse città nell’autunno del 1943. Il 30 novembre emanarono dunque un provvedimento che prescriveva l’arresto degli ebrei, cui sarebbe stato confiscato ogni bene, e il loro trasferimento in un unico luogo, individuato del complesso di Fossoli, in precedenza utilizzato come campo per prigionieri di guerra e destinato anche ad altri internati, come i detenuti politici. Le autorità di Salò e quelle del Terzo Reich definirono una sorta di divisione dei compiti: gli italiani si occuparono dell’arresto e dell’internamento degli ebrei; i tedeschi, che dal marzo 1944 assunsero anche formalmente il comando del campo di concentramento, ne organizzarono la progressiva deportazione verso i lager in Germania e Colonia, attuata con modalità disumane. Testo tratto dal sito della Fondazione Fossoli I circa 5.000 internati politici e razziali che passarono da Fossoli ebbero come destinazioni i campi di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Flossenburg e Ravensbrück. Dodici i convogli che si formarono con gli internati di Fossoli, sul primo diretto ad Auschwitz, il 22 febbraio, viaggiava anche Primo Levi che rievoca la sua breve esperienza a Fossoli nelle prime pagine di “Se questo e un uomo” e nella poesia “Il tramonto a Fossoli”.
STORIE COLLEGATE: Caminada, Luzzatto, Pardo Roques, Schwarz
Testo tratto da Renata Broggini, Terra d’asilo. I rifugiati italiani in Svizzera (1943-1945), Lugano, Fondazione del Centenario della Banca della Svizzera Italiana, Il Mulino, 1993, pp. 52-53, 145-147, 157-158, 582.
Con l’8 settembre, tornato al potere Mussolini e con i tedeschi padroni della situazione, a cercare scampo in Svizzera furono antifascisti, ebrei che fuggivano la deportazione, prigionieri di guerra evasi e soprattutto militari sbandati in numero sempre crescente.
L’arrivo dei civili, in gran parte ebrei, creò un altro delicato problema: in mancanza di norme internazionali paragonabili a quelle sui militari, le autorità federali provvidero da sé (su informazioni delle autorità cantonali) agli accertamenti per deciderne l’accoglimento. La legislazione Svizzera, durante i primi mesi dell’occupazione tedesca in Italia, non considerò gli ebrei veramente in pericolo, ritenendo che potessero ancora sfuggire alle persecuzioni, ad eccezione delle personalità di spicco. Così il refoulement di molti continuò fino all’ inverno 1943, malgrado il biasimo e la condanna espressi di nuovo dalla popolazione Svizzera e da parte della stampa. Solo le notizie dei rastrellamenti e degli eccidi di ebrei in atto in Italia convinsero le autorità federali a diramare in modo ufficioso, verso la fine del ‘43, disposizioni intese a non respingere più gli ebrei che si rifiutavano di riprendere la strada del ritorno.
Le guardie che intercettavano i fuggiaschi nelle zone di confine li accompagnavano al posto di dogana più vicino, dove il profugo subiva un primo interrogatorio e in quaderni manoscritti venivano registrati luogo e ora dell’ingresso, dati anagrafici e provenienza.
Una volta accolti, i profughi passavano le prime ore nel posto guardie doganali o in centri di accoglienza allestiti in genere in aule scolastiche delle località di confine; seguiva poi l’avvio in centri di raccolta dove cominciava la minuziosa trafila burocratica richiesta dalle autorità federali.
I profughi dei vari paesi venivano poi avviati in campi di quarantena, aperti di solito in alberghi o edifici requisiti, dove per tre settimane vivevano in stretto isolamento, sotto controllo militare, con alcune ore di libera uscita a gruppi, ma sempre accompagnati dalla sentinella. Durante questo periodo, in cui non potevano ricevere né inviare posta, per ogni rifugiato veniva formato un dossier che permettesse alla divisione di polizia, alla quale competeva la sistemazione definitiva, di prendere caso per caso una decisione. Se la quarantena non veniva prolungata per ragioni mediche o per altri motivi e se nel frattempo la divisione di polizia non aveva ancora preso una decisione il rifugiato veniva trasferito in un campo d’accueil o di smistamento, pure dipendente dall’autorità militare.
Trascorso questo periodo di provvisorietà, i civili venivano inviati alla nuova destinazione, che risultò però ben di rado definitiva, in campi per famiglie o in case (le homes), in campi di lavoro o in ricoveri per anziani. Chi poteva dimostrare di possedere denaro sufficiente – almeno 5.000 Franchi – o trovava un “garante” che si assumesse il suo mantenimento, veniva liberato dal controllo militare, pur restando sotto quello della polizia del Cantone: era così autorizzato a risiedere privatamente o in alberghi in regime di semilibertà, se provvisto di un minimo di mezzi.
I rientri nella fase della liberazione dell’Italia ebbero ancora carattere di eccezionalità e riguardarono di nuovo rifugiati politici forniti di lasciapassare della delegazione a Lugano del CLNAI. Nel luglio furono molte le famiglie israelite che ottennero il permesso di lasciare la Svizzera. Altri rifugiati, invece, vennero espulsi o tornarono settimane dopo, a estate inoltrata terminando così i mesi d’esilio.

STORIE COLLEGATE: Caminada, Levi, Luzzatto, Pardo Roques, Dana
Testo tratto da Francesca Costantini, I luoghi della Memoria ebraica di Milano, Mimesis, Milano 2016, pp. 93-95 1945. La guerra era appena finita, la Sinagoga era distrutta e anche archivi e gli uffici della Comunità ebraica milanese. Occorreva rifare tutto. Iniziò così l’opera di assistenza in denaro, viveri e indumenti per i numerosi ebrei d’Europa che giungevano dai vari paesi nei quali erano rimasti nascosti, dai campi di internamento e dalle carceri. Rientravano a Milano quanti erano fuggiti in Svizzera o si erano rifugiati in altre località italiane. Molti di questi, ignorando quanto era successo, ebbero l’amara sorpresa di conoscere la tragedia delle deportazioni, delle requisizioni, della perdita dei loro beni e, poco per volta, l’orrore dello sterminio. L’American Jewish Joint Distribution Committee ottenne dal comando alleato la requisizione del palazzo di via Unione, 5. Nello stabile di palazzo Odescalchi, proprio dietro il Duomo, furono sistemati temporaneamente, al primo piano nel salone principale, la Sinagoga, poi una mensa, un ambulatorio e tutti gli uffici essenziali. Nei piani superiori trovarono ospitalità i numerosissimi profughi che arrivavano a Milano da tutta Europa. In via Unione transitarono circa diecimila persone. Furono sistemate dappertutto. In cortile sotto il porticato, sulle scale, sulla terrazza, e perfino nella sinagoga, che fu aperta come luogo di rifugio nei momenti di maggiore affluenza. […] Per affrontare la situazione dei molti ebrei rimasti senza casa fu formato un Commissariato alloggi a carattere cittadino; fu liberata, rimessa in ordine e restituita agli ebrei anziani anche la casa di riposo, che era stata trasformata durante la loro assenza in una fabbrica di biscotti […]. All’interno di Palazzo Odescalchi, ora sede del commissariato di polizia, si può vedere una lapide posta sul lato sinistro del cortile, vicino all’entrata. in essa troviamo scritte le seguenti parole: In questo storico edificio tornò a vita dopo lo scempio delle persecuzioni fasciste e naziste la comunità ebraica di Milano. Qui furono attivi fra il 1945 e i primi anni 50 un luogo di culto, un centro di accoglienza profughi. Qui decine di migliaia di ebrei strappati alle loro case e alle loro famiglie trovarono amorevole assistenza, rifugio, sostentamento, cure mediche notizie di famigliari dispersi. Per molti fu da qui organizzato l’approdo alle sponde della Terra Promessa Milano, 27 gennaio 2010 – 12 shevat 5770 Primo Levi menziona via Unione in Se non ora, quando? Torino, ed. 2016, ebook ed., cap. XII, “luglio-agosto 1945” Via Unione? Avanti diritto, ancora due chilometri, ancora uno; Duomo, Duomo, non capire? Piazza del Duomo, e poi ancora avanti. Davanti alla mole del Duomo, butterato dai bombardamenti, si arrestarono ombrosi, sporchi e intimiditi, carichi dei loro fagotti scoloriti dal sole; furtivamente, Piotr si segnò con le tre dita riunite, alla maniera russa. In via Unione ritrovarono un’atmosfera che era loro piú famigliare. L’Ufficio Assistenza pullulava di profughi, polacchi, russi, céchi, ungheresi; quasi tutti parlavano jiddisch; tutti avevano bisogno di tutto, e la confusione era estrema. C’erano uomini, donne e bambini accampati nei corridoi, famiglie che si erano costruiti ripari con fogli di compensato o coperte appese. Su e giú per i corridoi, e dietro gli sportelli, si affaccendavano donne di tutte le età, trafelate, sudate, infaticabili. Nessuna di loro capiva il jiddisch e poche il tedesco; interpreti improvvisati si sgolavano nello sforzo di stabilire ordine e disciplina. L’aria era torrida, con sentori di latrina e di cucina. Una freccia, ed un cartello scritto in jiddisch, indicavano lo sportello a cui dovevano far capo i nuovi venuti; si misero in coda ed attesero con pazienza.
STORIE COLLEGATE: Caminada, Dana, Luzzatto, Pardo Roques
Testo liberamente tratto da: Edoardo Bressan, La Congregazione di Carità, l’ECA e le Opere pie amministrate (1862-1978), in Il tesoro dei poveri. Il patrimonio artistico delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (ex Eca) di Milano, a cura di Marco G. Bascapè, Paolo M. Galimberti e Sergio Rebora, Milano – Cinisello Balsamo, Amministrazione delle II.PP.A.B. – Silvana Editoriale, 2001, pp. 204-207
La Lombardia fu la prima fra le antiche province del Regno d’Italia ad applicare la legge 20 novembre 1859 sulle opere pie, la “Legge Rattazzi”, e a Milano la Congregazione di Carità si insediò l’8 gennaio 1862 sotto la presidenza di Ignazio Prinetti. Si trattava dell’istituzione che aveva il compito di amministrare la beneficenza pubblica a livello municipale e i cui membri erano eletti dal consiglio comunale con un periodico avvicendamento. In base al regolamento del 15 maggio 1868, la Congregazione di Carità di Milano – che aveva ereditato il patrimonio e la tradizione assistenziale degli antichi Luoghi pii elemosinieri – riorganizzò l’assegnazione di elemosine e doti in base a un criterio generale:
Soccorrere la miseria incolpevole, impotente; sussidiare quelle famiglie o quelle persone, le quali, per cause indipendenti da propria colpa, non bastano da sé medesime ad alimentare sé stesse e non abbiano chi per legge sia obbligato a provvedervi. Venire in soccorso a chi può essere tratto da una cattiva posizione economica, facilitandogli, per quanto è possibile, il ritorno ad una condizione migliorata e tale da poter reggere di nuovo sé e la propria famiglia. Esercitare la beneficenza in modo da impedire che venga sostituito alla energia individuale il facile e corrompente reddito delle elemosini inamovibili.
La Congregazione continuò del resto a essere espressione del Consiglio comunale e questo si riflesse sulle presidenze che, con la fine del secolo, seguirono i cambiamenti di maggioranza sul piano municipale. A prevalere fu in ogni caso una linea di continuità, con un incremento degli interventi nel momento della maggiore trasformazione economica e industriale di Milano. Le strutture e la capacità di intervento dell’Ente costituirono poi la base, all’interno di un vasto progetto coordinato dalle autorità cittadine, per l’azione svolta durante il primo conflitto mondiale e rivolta in modo particolare al sostegno delle famiglie dei militari al fronte, degli invalidi e dei caduti, azione proseguita anche al termine della guerra.
Con il fascismo la Congregazione di Carità venne dapprima coadiuvata da numerose istituzioni legate direttamente al Partito Fascista, come l’Ente Opere Assistenziali, che attraverso i Gruppi Rionali Fascisti spostò la beneficenza verso un’assistenza in larga parte elemosiniera, come ad esempio l’Assistenza Invernale, e poi venne riformata nell’Ente Comunale di Assistenza (ECA), che assorbì anche le istituzioni fasciste. All’indomani del 25 aprile 1945 l’avv. Ezio Vigorelli venne nominato commissario straordinario dal Comitato di Liberazione Nazionale. Durante i mesi seguenti e poi, a partire dall’ottobre 1946, in qualità di presidente del comitato di amministrazione eletto dal consiglio comunale di Milano e formato dai rappresentanti dei partiti democratici, Vigorelli si impegnò in un’opera di grandi proporzioni, che si rivolse innanzitutto alle vittime della guerra, agli ex deportati, a chi aveva perso tutto, ai partigiani e alle famiglie che versavano in maggiori difficoltà. Furono allestiti servizi di emergenza di ogni genere che andavano dal servizio di mensa all’ospitalità temporanea, dai sussidi in denaro alle elargizioni in generi alimentari e di vestiario, attingendo al patrimonio dei Luoghi pii elemosinieri e utilizzando gli aiuti alleati.
La documentazione dell’assistenza fornita dall’ECA, con i relativi fascicoli personali, è conservata nei fondi assistenziali dell’Archivio dell’ASP Golgi Redaelli.
