I Pardo Roques
I Pardo Roques giungono in Italia nel 1912, espulsi dalla Turchia a causa del conflitto tra l’Italia e l’Impero Ottomano per la Libia. Aiutati e soccorsi dalla città di Milano e dai milanesi, negli anni seguenti si spostano tra Livorno, Milano e la Francia. Fuggono in Svizzera dopo l’8 settembre, tornando in Italia alla fine della Seconda guerra mondiale.
In fuga da Costantinopoli
Le famiglie Pardo Roques giunsero in Italia il 26 giugno 1912. Si erano messe in viaggio da Costantinopoli, espulse dal governo turco a causa dello scoppio della guerra in Libia. Gli italiani erano stati costretti ad una precipitosa fuga. Erano chiamati profughi levantini, e alcuni di loro, bisnipoti di mercanti genovesi o veneziani, non avevano mai avuto contatti con la madrepatria e non conoscevano nemmeno l’italiano, perché la loro famiglia da generazioni si era trasferita alle porte dell’Oriente. Il conflitto fra l’Italia e l’Impero Ottomano era iniziato nel settembre precedente con l’ultimatum consegnato alla Sublime Porta per il possesso delle regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica, inducendo l’attuale Turchia ad espellere gli italiani spinti a tornare in Italia. Il viaggio di ritorno si rivelò da subito molto complicato. Emanuele Pardo Roques, che a Istanbul faceva il contabile, si imbarcò sulla nave “Ispahan” della compagnia Messageries Maritimes, insieme alla moglie Rosa Coen e ai figli Susanna e Alberto. Agli ufficiali della compagnia marittima aveva pagato 80 piastre Kurus per il viaggio, più altre 30 a testa per sé e per i suoi famigliari per affrettarne l’imbarco (poco più di 150 euro in aggiunta al costo del biglietto). Nonostante i soldi in più pagati, per la piccola Susanna, sei anni e affetta da rosolia, la madre inutilmente chiese un po’ di latte, uova e brodo, come prescritto dal medico di bordo. Sulla stessa nave viaggiava anche Moisé Pardo Roques, fratello di Emanuele, che aveva sborsato inutilmente 30 lire a testa per l’imbarco prioritario e per una cabina per le donne e i bambini della sua famiglia, composta dalla moglie Rebecca e dai figli Nissim, il maggiore, Elvira, Renè e il piccolo Vittorio. Moisé aveva protestato sostenendo di aver parlato con Pierre, un impiegato delle Messageries Maritimes, che per questo servizio aveva incassato 300 lire. Il capo della cucina della nave, mosso a compassione, aveva quindi rinunciato alla sua cabina per darla a loro. Insieme ad Emanuele e Moisé c’era anche il terzo fratello, Naim, con la moglie Susanna e i figli Alberto, Naim e Sara. Durante gli ultimi giorni di traversata, tra Messina e Napoli, la nave incontrò una burrasca che fece soffrire tutti i passeggeri; dopo cinque giorni di viaggio la “Ispahan” giunse finalmente al porto partenopeo, dove fu però intimato il divieto di sbarco, e l’indicazione di proseguire per Genova, l’ultima destinazione della nave.
“Pardo Roques Emanuele, per sé e per altre tre persone di famiglia pagò lire 30 a testa per l’imbarco e ciò per affrettare il rimpatrio”.
Una nuova casa a Niguarda
Dalla Liguria i profughi levantini vennero trasferiti a Milano, dove furono alloggiati nel quartiere Niguarda, in edifici messi a disposizione dall’Istituto Autonomo Case Popolari. Il Corriere della Sera scrisse: “in poche ore si è creata una nuova, minuscola città con una popolazione sua, con costumi suoi. I quattro fabbricati, presso Niguarda, nei quali i profughi, giunti l’altro ieri, sono stati alloggiati, si possono paragonare ad altrettanti quartieri indicati rispettivamente con un numero: 5, 8, 9, 10”. Le famiglie Pardo Roques vennero assegnate al numero 10, agli appartamenti 9, 10 e 15. In totale il 17 giugno si sistemarono a Niguarda circa 225 persone. Le case popolari di Niguarda, appena costruite, vennero affittate dal Comune di Milano, mentre le autorità militari fornirono brande complete di materassi, cuscini, coperte e lenzuola. Altri letti vennero offerti dagli orfanotrofi e dai luoghi pii, i lettini dal brefotrofio, mentre per il servizio cucina vennero consegnati i tavoli e le pentole in uso per la refezione scolastica. I fornitori del Comune erano invece stati convinti a donare posate, bicchieri, bottiglie, mobili. Si provvide anche ad adibire un locale ad uso ambulatorio per le visite mediche giornaliere, mentre una sala venne destinata alla lettura e alla scrittura con annessa biblioteca. Si fece di tutto per mettere a loro agio e sostenere i profughi dalla Turchia, con aiuti di singoli cittadini e associazioni. Venne anche costituito il Comitato cittadino di soccorso agli espulsi di Turchia, su iniziativa del Comune di Milano e dalla Camera di Commercio, con il compito di gestire tutte le loro esigenze. Con esso collaborarono attivamente l’Unione Femminile Nazionale e la Società Umanitaria per ciò che riguarda la ricerca di un lavoro, mentre la Congregazione di Carità, la Cariplo, il Comune e “Il Secolo” sostennero economicamente l’iniziativa, insieme alle piccole donazioni dei cittadini. A scopo di istruzione e di divertimento vennero anche organizzate gite alla Cappella Espiatoria di Monza, alla Certosa di Pavia e a tutti i monumenti di Milano, impresa resa più facile grazie alla collaborazione della Società Omnibus e Vetture. Oltre a ciò, i residenti furono gentilmente invitati ad assistere a rappresentazioni teatrali, cinematografiche e a spettacoli di ogni tipo, come la corsa di bighe all’Arena. I profughi vennero accolti benissimo dalla città di Milano, tanto che il capo della comunità israelitica di Niguarda, proprio uno dei Pardo Roques rispose sui giornali a tono alla propaganda turca, tipica del giornalismo durante la guerra, che raccontava di una loro condizione miserevole.
La vita sotto il regime
Una volta finita la guerra, alla fine del 1912, molti dei profughi levantini decisero di ritornare a Costantinopoli, dove avevano lasciato i loro interessi. A poco a poco chi aveva invece deciso di rimanere in Italia dovette ricostruirsi una nuova vita. Così fu per Emanuele Pardo Roques. Per Alberto, il figlio di 9 anni che a Costantinopoli frequentava la I classe, venne chiesta l’iscrizione al Collegio Nazionale, mentre la famiglia era in procinto di trasferirsi a Livorno, vicino ai parenti che vivevano in Toscana. L’anno dopo, nella città toscana, sarebbe nato Enrico Isacco Mardocleo, terzo figlio della coppia. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale Emanuele venne chiamato alle armi, e servì per tre anni nelle retrovie a Siena, con incarichi burocratici. Nell’agosto del 1917, tra l’entrata in guerra degli Stati Uniti e la Rivoluzione d’Ottobre, nacque il quarto figlio, Cesare. Una volta terminata la Grande guerra, negli anni ’20, la famiglia da Livorno tornò a Milano, prendendo casa in via Sardegna. Durante il Ventennio Emanuele fece il rappresentante-commerciante in tessuti e filati di cotone e gestì una grande ditta d’esportazione per l’Oriente. Alberto e Cesare intrapresero la stessa professione del padre, il primo come commesso viaggiatore per ditte di filati e confezioni, il secondo di materiali elastici. Enrico fece invece l’impiegato. Emanuele durante tutto il regime non aderì mai al Partito Fascista, anche se fu costretto come tutti a donare la sua fede quando venne richiesto l’oro della patria durante la “giornata della fede”, il 18 dicembre 1935. Questa sua azione non gli permise comunque di ottenere l’accettazione della richiesta di discriminazione, fatta subito dopo le leggi antiebraiche del 1938; il 19 aprile 1939 la Prefettura diede parere contrario alla richiesta di Emanuele Pardo Roques. Rosa Coen, moglie di Emanuele, morì a guerra iniziata, il 15 febbraio 1942. A Milano, negli anni ’30, vissero anche Naim e Sara, i figli del fratello di Emanuele, Naim. Lei lavorava come impiegata d’ufficio presso la Riunione Adriatica di Sicurtà, anche se con l’entrata in vigore delle leggi antiebraiche fu costretta ad abbandonare il lavoro, mentre il fratello era impiegato, riuscendo nonostante tutto a continuare a lavorare fino al 1943. La terza famiglia dei Pardo Roques giunta a Milano nel 1912, quella di Rebecca, con i figli Nissim, René e Vittorio si trasferì invece in Francia, a Parigi, dopo un breve ritorno a Costantinopoli subito dopo la fine della guerra italo-turca.
In fuga tra Francia, Italia e Svizzera
Con l’occupazione della Francia da parte dei nazisti la situazione iniziò a degenerare. Tra il 20 e il 23 Agosto 1941 vennero fermati 1232 ebrei per le strade dell’XI Arrondissement, o nelle loro case della capitale, e portati al campo di Drancy, alla periferia di Parigi. Vittorio Pardo Roques, o Victor com’era chiamato in Francia, anche lui catturato e rinchiuso, rimase in questo campo di prigionia per quattro mesi. Nel maggio 1942 l’ambasciatore italiano consigliò alla famiglia di rientrare in Italia, perché la situazione a breve sarebbe peggiorata. Così tutti ritornarono a Milano. A Parigi, qualche mese dopo, sarebbero iniziate l’operazione “Vento di Primavera” e le prime deportazioni verso il campo di sterminio di Auschwitz. A Milano Nissim venne assunto dal maglificio di Dario Bensussan, mentre Vittorio trovò lavoro presso un’altra ditta milanese. Dopo l’8 settembre la situazione iniziò a precipitare anche in Italia, e i Pardo Roques decisero di fuggire in Svizzera. Il cugino Naim si occupò di trovare una guida che li aiutò a passare la frontiera, un certo Cernotti. Partirono il 21 novembre da Milano per raggiungere Como e da lì Cernobbio in filobus; salirono poi a piedi sul Bisbino, pernottarono in una capanna, e l’indomani ripresero a camminare. Raggiunsero la frontiera e la varcarono due giorni dopo essere partiti, passando da Sagno. Vittorio pagò la guida 2300 lire. Con lui c’erano la madre, le sorelle René e Giuditta, il fratello Nissim e i due cugini, Naim e Sara. Poco prima di loro, il 22 ottobre, avevano attraversato il confine, passando da Roggiana, Alberto Pardo Roques, sua moglie Eleonora Brod con il loro figlio Emanuele di tre mesi, i fratelli Cesare ed Enrico, insieme alla moglie di quest’ultimo, Wanda Sabbadini. Poco dopo, passando da Chiasso, li avevano raggiunti anche il loro padre, Emanuele, con la sorella Susanna. La preoccupazione era aumentata quando sia Cesare che Emanuele avevano assistito con i loro occhi ai rastrellamenti casa per casa. Il primo aveva assistito all’arresto del cognato Bruno Sabbadini, mentre il secondo aveva visto portare via i Levi, una famiglia di conoscenti. In Svizzera furono ricoverati all’asilo di S. Biagio al campo di Gudo. In seguito Cesare chiese di poter raggiungere la moglie che stava a Rovio, Susanna venne collocata a Lugano, presso l’Hotel Pax, mentre Alberto risiedette presso la signora Cremonini alla Casa del Popolo, e successivamente all’albergo Edelweiss.
“Bisogna essere pazienti. Grazie, mio caro fratello, di dirci che tu lo sei. Io spero che sia vero, anche se non lo sei.”
Riprendersi la vita e i beni
I Pardo Roques erano rientrati dalla Svizzera, dove si erano rifugiati, nel luglio del 1945. Nissim e Emanuele il 27 luglio 1945 si recarono all’ECA per ricevere un sussidio, il primo 3.000 lire per la famiglia, il secondo 1.000. I beni dei Pardo Roques, mobili collocati in una casa affittata a Luino, erano stati sequestrati nel 1944, e presi in gestione dall’EGELI. Ad inizio di quell’anno i padroni della casa avevano deciso di usare l’abitazione per ospitare una loro parente sfollata da Rimini, e così, come prescritto dalla legge, avevano denunciato il proprietario ebreo scrivendo al Prefetto. Nella lettera di denuncia era stato nominato come affittuario un Roques sfollato da Milano. Erroneamente questi era stato identificato come Nissim, che la sua casa e i suoi mobili li avevi persi in via Aselli 32, nelle case popolari dello IACP, a causa dei violenti bombardamenti su Milano dell’agosto ’43. Una parte del mobilio di Luino era stata assegnata al funzionario D’Elia, Direttore dell’Ufficio Provinciale del Tesoro di Varese, profugo da Lecce insieme alla moglie e ai quattro figli, che si era dovuto trasferire ad Induno senza potersi far spedire le sue cose, con l’Italia dell’agosto ’44 ancora divisa in due. All’interno di una libreria erano stati ritrovati anche 36 loro libri, che andavano dal gioco del bridge a libri in ebraico, da romanzi ai grandi classici di Omero e al De Bello Gallico. Alla fine della guerra D’Elia si trasferì al sud, e così si cercarono i Roques per riconsegnare i mobili e chiedere il pagamento di canoni arretrati. Emanuele, Alberto e Nissim Pardo Roques, per conto di tutta la famiglia, il 1 aprile 1946 si presentarono all’Ufficio che gestiva la pratica.
“Sono un ebreo proletario italiano che ha passato la sua adolescenza in Francia dove la mia famiglia s’era stabilità dopo la Prima guerra mondiale..”
Tra politica, ricordo e lavoro
Emanuele morì nell’aprile del 1952. Nissim invece dopo la guerra iniziò a lavorare come esperto contabile, lavorando nello studio diretto da Enrico Frigeni, in via Montepulciano, in zona Loreto. A fine anni Cinquanta propose al Ministro delle Finanze Preti di modificare radicalmente il sistema tributario italiano per combattere l’evasione fiscale facendo applicare un sistema contabile centralizzato per mezzo di esperti. La sua proposta venne però rigettata perché avrebbe comportato un’ingerenza dello Stato troppo elevata. Negli anni Sessanta divenne segretario della Lega dei Contabili Sindacalisti, curando numerose proposte, volantini e opuscoli volti ancora una volta a ridurre l’evasione fiscale. La sua proposta di riforma prevedeva anche la creazione di studi di contabilità dipendenti dalle banche, come chiesto in alcune lettere ai presidenti della Banca Popolare di Milano, della Banca Italo – Israeliana e del Credito artigiano, e un piano di lavoro contabile esposto anche a Piero Bassetti, Presidente della Commissione Regionale per la Programmazione Economica, Assessore al bilancio del comune di Milano e che di lì a poco sarebbe diventato primo Presidente della Regione. Il suo piano prevedeva una collaborazione con altri contabili al fine di formare i dirigenti delle imprese e i loro dipendenti, dare consulenze e controlli mensili in quelle stesse aziende, proponendo un’archiviazione numerica dei fascicoli contabili, così da poterli trovare immediatamente. Nel 1964 appoggiò alle elezioni comunali Enrico Frigeni, con cui lavorava, e che faceva parte della lista socialista al cui capo c’era Antonio Greppi. In quello stesso anno entrò in polemica con un giornale di Amburgo, “Krystall”, che aveva pubblicato un articolo contro gli italiani per via della crescente inflazione nel nostro paese e per la instabile situazione politica dovuta alle dimissioni del governo Moro e al Golpe del generale De Lorenzo. Nissim rispose quindi dalle colonne del periodico di ispirazione socialista “ABC”, fondato pochi anni prima da Enrico Mattei, in un duro articolo dal titolo “Tedeschi giù il cappello davanti all’Italia per favore”. Morirà nel 1972, seguito di lì a poco da Alberto ed Eleonora Brod, Susanna ed Enrico. Enrico ebbe due figli, Roberto e Guido. I figli di Alberto, Emanuele e Dario, hanno proseguito l’attività di famiglia lavorando nel settore tessile. Dario ha avuto una figlia, Deborah. Ora sono entrambi in pensione. Cesare, l’ultimo e più giovane dei figli di Emanuele, morirà nel 2009.