I Dana

I Dana, una grande famiglia immigrata in Italia dalla Turchia alla fine degli anni Venti alla ricerca di un futuro migliore. In Italia si dedicano al commercio ambulante di calze nei mercati e si integrano rapidamente nella società mantenendo un forte radicamento anche con la comunità turca, ebraica e non.

Da Costantinopoli a Milano

Fin dagli anni della guerra italo-turca e, successivamente, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella Prima guerra mondiale vi fu un ampio movimento migratorio dalla attuale Turchia verso l’Italia, in particolare all’interno della comunità ebraica che aveva vissuto in quelle terre fin dalla cacciata dalla Spagna e dal Portogallo in relativa autonomia. Verso la fine degli anni Venti anche Estrea e Moisé Dana compiono questa emigrazione: i due avevano avuto cinque figli Salomone nel 1899, Isacco nel 1903, Giuseppe nel 1904, Lea nel 1906 e l’ultimo, Sabetay nel 1913; tutti erano nati a Costantinopoli dove la famiglia risiedeva e in casa parlavano il giudeo spagnolo, la lingua romanza diffusa nel bacino del Mediterraneo dai discendenti degli ebrei espulsi dalla Spagna e dal Portogallo nel 1492. Arrivati in Italia insieme a mogli e mariti i Dana si dedicano al commercio ambulante di calze nei mercati e nelle piazze inserendosi nella vasta comunità di turchi, ebrei e musulmani, emigrati. Gli undici nipoti di Estrea e Moisé, i figli e le figlie di Salomone, Isacco, Giuseppe e Lea nascono tutti in Italia, soltanto il figlio maggiore di Isacco e di Luna Rachele Gallico, Michon Moisé, nasce a Costantinopoli nel 1924, prima dell’emigrazione della famiglia. Da Milano, dopo la nascita dei figli, Lea Dana con il marito Salomone Afnaim si trasferisce in provincia di Rovigo a Taglio di Po. A Milano la maggior parte dei componenti della famiglia risultano iscritti nei registri della Comunità ebraica e alcuni dei piccoli Dana frequentano la scuola ebraica di via Eupili e le colonie estive dell’Organizzazione sanitaria ebraica (OSE) a Riccione. È proprio durante uno di questi soggiorni, nel 1937, che il piccolo Salvatore Dana, figlio di Isacco, e l’amico Giuseppe Salinas, figlio di Davide, anche lui un ebreo turco emigrato in Italia, assistono alla visita alla colonia di Benito Mussolini. L’anno dopo Mussolini avrebbe annunciato la promulgazione delle leggi antiebraiche.

“Cercavano di aiutarlo perché lui la licenza non ce l’aveva più”

Dalle leggi antiebraiche ai primi anni di guerra

Censiti nel censimento degli ebrei dell’agosto, a causa delle leggi antiebraiche del 1938 i Dana persero le licenze di vendita ambulante anche se continuarono a occuparsi della vendita di calze confidando nell’aiuto di altri commercianti che lasciavano loro qualche spazio nei mercati per esporre la merce. Tra gli effetti delle leggi vi fu anche la perdita della cittadinanza italiana per quelli tra loro che avevano già rinunciato alla nazionalità turca e che si trovarono nella difficile condizione di apolidi, sicuramente la famiglia di Isacco e, forse, di Lea Behar, mentre gli altri Dana avevano mantenuto la cittadinanza turca.
Dall’ingresso in guerra fino al 1942 la città di Milano non venne particolarmente colpita dai bombardamenti, che furono prevalentemente concentrati sull’Italia meridionale e su altre città del Nord come Genova e Torino. I bombardamenti a tappeto iniziarono con il mese di ottobre del 1942 e proseguirono nel 1943 fino alle distruzioni gravissime dell’agosto, condotti prevalentemente dalla Royal Air Force e, dall’estate del 1943, anche dagli americani della United States Army Air Force. A causa dei bombardamenti furono sempre più numerose le famiglie che si rifugiarono nei paesini e nelle campagne; non fanno eccezione i Dana che tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 si trasferiscono in varie località. Salomone con la moglie Malkuna Botton e i figli Mosè, Nissim Samuele e Stella presero in affitto una stanza a Calcinato in provincia di Brescia insieme ad altre famiglie ebree tra cui gli amici Salinas, il cui figlio Giuseppe sposerà la loro figlia Stella nel dopoguerra. Isacco Dana, la moglie Luna Rachele Gallico e i loro figli Michon Moisé, Stella – anche lei, come le cugine ha preso il nome della nonna – Salvatore e Ester si trasferiscono in una cascina a Ballabio in provincia di Como. Sia Isacco che Salomone facevano la spola tra Milano dove continuavano a lavorare e la località di sfollamento, come molti altri cittadini che ogni sera o ogni settimana a piedi, su carri, biciclette e mezzi di fortuna si spostavano da Milano a luoghi più sicuri. Invece Lea Behar, rimasta vedova di Giuseppe, con le figlie Sara e Stella era andata a servizio a Cantù presso la famiglia Modena portando con sé anche le figlie. Vincenzo Modena, in una testimonianza raccolta dopo la guerra, ricorda che l’unico bene importante che avevano portato via dalla loro abitazione era un imponente grammofono, alla musica del quale le ragazze si divertivano a ballare travestite da baiadere.
Al contrario Lea Dana, l’unica figlia di Estrea e Moisé, con il marito Salomone Afnaim e i figli Leone e Vittoria vengono internati nel campo di Taglio di Po in provincia di Rovigo già nel 1942 e vi rimangono fino alla deportazione, Salomone Afnaim era stato internato già dal 1941 prima a Ferramonti e poi a Casoli in provincia di Chieti.
Con l’8 settembre 1943, la nascita della Repubblica sociale italiana e l’occupazione nazista la situazione per la famiglia Dana e per tutti gli ebrei in Italia peggiora rapidamente.

Lea Behar e la retata alla sinagoga di via Guastalla

Lea Behar viveva con le figlie Sara e Stella in un appartamento in affitto a Milano in via Casella 41: era nata a Costantinopoli il 14 marzo 1900 e di professione risulta prima calzettaia, poi casalinga. Le figlie, Sara, chiamata come la nonna materna Sara Gallico, e Stella (Estrea), chiamata come la nonna paterna, erano nate entrambe a Milano, la prima il 16 ottobre 1927 e la seconda il 19 febbraio 1931.
Rientrate a Milano da Cantù il 29 ottobre 1943 le strade delle tre donne si dividono: Sara viene ricoverata presso il Pio Istituto di Santa Corona a Pietra Ligure, mentre Lea e Stella rimangono nell’abitazione di via Casella.
Il mattino dell’8 novembre 1943 Lea Behar si reca presso la Comunità ebraica per ritirare un sussidio di vedovanza che le veniva corrisposto, e lì viene sorpresa da una retata compiuta dalla Gestapo guidata dal famigerato Otto Koch. Otto Koch, nato a Halle nel 1909, entrato prima in polizia nel 1934 e poi nella Gestapo, era il responsabile del Reparto IV b dell’Aussenkomando di Milano diretto da Theo Saevecke, quello dedicato alle operazioni contro gli ebrei. Noto come Judenkoch per il sadismo e l’efferatezza dimostrate nelle persecuzioni antisemite fu proprio lui l’8 novembre 1943 a guidare la Gestapo all’irruzione presso gli uffici di via Guastalla.
La sinagoga centrale di via Guastalla era stata profondamente danneggiata dai bombardamenti dell’agosto, solo la facciata era rimasta integra, ma erano ancora agibili e utilizzati alcuni uffici del Rabbinato e della Comunità a cui si rivolgevano quotidianamente ebrei italiani e stranieri in cerca di informazioni e di sostegno economico. Secondo la testimonianza del cerimoniere del Tempio Alberto Bassi, arrestato in quell’occasione, verso le 9.30 del mattino due uomini in borghese suonarono al campanello degli uffici, scambiati per profughi furono fatti entrare senza timore. Attraverso questo stratagemma gli uomini della Gestapo sorpresero e arrestarono una quindicina di persone che si trovavano all’interno. Terminati i primi interrogatori tutti i malcapitati vennero portati nel cortile interno: il profugo ungherese Lazzaro Araf, che era stato fermato con la moglie Lisa Sidi e i figli Marco e Matilde, tentò di scappare tra le rovine degli edifici bombardati, ne nacque una colluttazione in cui lo stesso Koch uccise Araf a bruciapelo mentre uno o due degli arrestati riuscirono a dileguarsi. Bassi e il portiere della Comunità furono trattenuti più a lungo in via Guastalla perchè Koch voleva farsi dare il “tesoro” del Tempio. Dopo un mese di prigionia a San Vittore nel IV raggio il 6 dicembre 1943 Lea Behar venne deportata ad Auschwitz con il primo convoglio partito dal Binario 21 della Stazione centrale di Milano: morta in luogo e data sconosciuta, non è sopravvissuta alla Shoah.

Due sorelle separate: Sara e Stella Dana

Accortasi del mancato ritorno della madre, Stella Dana raggiunge i nonni Estrea e Moisé nella casa di viale Espinasse, a pochi metri dalla sua abitazione, dove vivevano con lo zio Salomone la cui famiglia era ancora a Calcinato nella località di sfollamento. I tre trovano una prima ospitalità a Milano presso una famiglia di amici turchi di religione musulmana, anche loro emigrati da tempo in Italia. Qualche tempo dopo, il 13 dicembre 1943, un funzionario della polizia di Musocco si presentò nell’abitazione di via Casella per requisire i pochi beni di proprietà della famiglia che affidò in gestione a una donna che si era trasferita nell’abitazione.
Ricoverata da fine ottobre presso l’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, specializzato nella cura e riabilitazione delle malattie polmonari e sponda ligure dell’ente morale milanese Pio Istituto Santa Corona, Sara, invece, non era a conoscenza dell’arresto della madre e, infatti, proprio dall’ospedale la ragazza aveva mandato una cartolina alla famiglia presso la loro abitazione di via Casella. Ormai nella casa non abita più nessuno dei Dana e la cartolina viene intercettata, forse per delazione di qualcuno o durante la presa in carico dei beni, e consente alle autorità di rintracciarla. Il 29 dicembre un ufficiale e un sottoufficiale delle SS, insieme al comandante locale dei carabinieri, si recano nell’ospedale di Pietra Ligure e arrestano Sara ricercata perché di razza ebraica, come denuncia la direzione dell’ospedale in una lettera del 15 gennaio 1944 al capo della provincia di Savona, ritirando la malata e trasportandola in automobile verso ignota destinazione. Anche Sara, come la madre, viene prima rinchiusa nel carcere di San Vittore e poi deportata ad Auschwitz con il convoglio del 30 gennaio 1944, da cui non fa più ritorno.
La macchina burocratica della persecuzione continua la sua lenta trafila: quasi un anno dopo la prima perquisizione, i beni della famiglia Dana vengono presi in carico dal Credito fondiario della Cariplo che manda il 26 ottobre 1944 il perito Pietro Bosisio a stimare il valore dei pochi mobili rimasti nell’appartamento, valutati in circa 6000 lire vengono affidati a un certo Attilio Cattaneo trasferitosi nella loro abitazione perché sinistrato.

Due campi di concentramento e due destini diversi: le famiglie di Isacco e Salomone

Nel corso del 1944 la persecuzione nazifascista ha colpito altri fratelli Dana: il 15 febbraio 1944 la polizia locale irrompe nella cascina di Ballabio dove la famiglia di Isacco Dana si è rifugiata fin dal 1942 per sfuggire i bombardamenti con un elenco di nomi di persone da arrestare. Nella cascina al momento dell’irruzione si trovano Luna Rachele Gallico con i figli Stella, nata a Milano nel 1926, Salvatore nato nel 1930 e la più piccola Ester che non ha ancora compiuto otto anni; il figlio più grande Moisé è andato nel bosco a raccogliere un po’ di legna mentre il padre Isacco è a Milano per lavoro. Luna Rachele Gallico e i figli presenti in cascina vengono arrestati, Moisé Michon è l’unico che si salva; gli arrestati sono trasportati prima nel carcere di Como e poi a San Vittore.
La famiglia di Salomone Dana, invece, aveva lasciato la piccola località di Calcinato, dove, dopo l’ordinanza Buffarini Guidi del 30 novembre 1943 che dava la caccia agli ebrei nel territorio italiano, era meno facile nascondersi, per ritornare a Milano e chiedere consiglio al Consolato turco: la Turchia non era ancora in guerra con l’Italia e il Consolato garantì loro la sicurezza. Non era così, pochi giorni più tardi, probabilmente agli inizi di maggio 1944, anche Salomone con tutta la sua famiglia e il fratello Isacco sono arrestati: i fascisti li prelevano dalla loro abitazione milanese di viale Espinasse e li portano a San Vittore dove Isacco cercò di riunirsi con la moglie e i figli. Isacco Dana, la moglie Luna e i loro tre figli saranno tutti deportati prima nel campo di concentramento di Fossoli e, da Fossoli, nel campo di sterminio di Auschwitz, con trasporti diversi. Nessuno di loro è sopravvissuto alla Shoah.
Salomone, la moglie Malkuna, Margherita in famiglia, e i figli Mosè, Nissim Samuele e Stella sono deportati il 19 maggio 1944 in un vagone carico unicamente di cittadini turchi nel campo di concentramento di Bergen Belsen in Germania; dopo qualche tempo sono assegnati all’Aufenthaltslager dove vengono riuniti gli ebrei, destinati a essere fatti oggetto di scambio come quelli di paesi neutrali o alleati. Nel campo si riuniscono con la famiglia della zia Lea, arrestata a Taglio di Po. Il 4 marzo 1945 i Dana e gli altri altri turchi prigionieri del campo vengono affidati alla Croce Rossa che li trasporta in treno verso la Danimarca e da lì li imbarca su una nave in direzione della patria di origine. Gli altri prigionieri del loro campo, prevalentemente greci di Salonicco, saranno decimati nei giorni precedenti la liberazione da fame e malattie.

“Un’alba, una mattina sono venuti questi fascisti”

“Una volta mio fratello ha fatto a botte per avere un pezzo di pane sporco di terra”

La famiglia si ritrova dopo la guerra

All’indomani del 25 aprile 1945 quando i partigiani iniziano l’insurrezione della città di Milano solo una parte della famiglia Dana vi vive ancora. Si tratta dei nonni, di Sabetay e di Moisé Michon che, dopo aver affidato Stella a una famiglia di amici, hanno trascorso l’ultimo anno e mezzo di guerra nascosti in un edificio diroccato in via Cenisio, uno stabile colpito dai bombardamenti dell’estate del 1943 e parzialmente ancora in piedi, grazie anche all’aiuto di alcuni vicini che portavano loro cibo e vestiti.
Le famiglie di Salomone e di Lea Dana, consegnate alla Croce Rossa nell’ambito di uno scambio di prigionieri, avevano trascorso il mese di marzo 1945 in viaggio, prima in treno e poi su una nave; attraverso Danimarca, Svezia, Inghilterra, Portogallo e Egitto, accolti ovunque da festeggiamenti, e dopo aver celebrato Pesach da liberi sulla nave, raggiunsero la Turchia il 10 aprile 1945. All’arrivo a Istanbul vennero rinchiusi prima nel porto, poi in un albergo requisito e, solo dopo qualche tempo, grazie all’assistenza di alcuni parenti rimasti in Turchia che garantirono di ospitarli nelle loro abitazioni, le famiglie di Salomone e di Lea Dana poterono essere liberate. Nei mesi successivi vissero a Istanbul dedicandosi ancora al commercio ambulante di calze: Salomone – come racconta la figlia Stella – appendeva al collo una scatola con cui portava in giro le proprie mercanzie. Soltanto dopo diversi mesi tutti poterono rientrare in Italia, che consideravano ormai la loro patria, e ricongiungersi con i familiari sopravvissuti.
Alla fine dell’agosto 1945 a nome di Lea Behar la famiglia chiese all’Eca un sussidio di 3.000 lire. Moisè Michon, unico sopravvissuto tra i figli di Isacco e Luna, preferì non rimanere in Italia e nel 1946, dopo un passaggio a Cipro, si trasferì nel kibbutz Ma’agan Michael in Israele.
I pochi beni confiscati a Lea Behar dall’EGELI non vennero mai restituiti; dai documenti del Credito fondiario sembra che ne sia stata causa la consueta rigidità burocratica richiesta dall’Egeli nella gestione delle pratiche, la minore età di Stella e in qualche modo la confusione tra lei e la sorella Sara che risultava deportata. Di certo gli arredi vennero trasferiti dall’abitazione alla sede del Monte di Credito su Pegni e lì venduti nel 1951 in un’asta per ripagare i costi di gestione senza che il ricavato venisse corrisposto alla famiglia.
Negli anni successivi le famiglie Dana ripresero la loro vita senza mai dimenticare le persecuzioni subite, ma cercando di riconquistare una forma di normalità. Nel 2004 un albero di ciliegio è stato piantato in ricordo di Sara Dana durante una cerimonia pubblica nei giardini dell’ospedale di Pietra Ligure.

“È venuto l’ordine… Potevamo rientrare in Turchia”

ViteAttraverso. Storie, documenti, voci di ebrei milanesi nel ‘900.
A cura di Laura Brazzo, Carla Cioglia, Francesco Lisanti.

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