
Renata Caminada
Renata Caminada, ultima dei sette figli di Antonio Caminada e Eugenia Cuzzeri, nasce a Milano il 30 giugno 1921; arrestata, viene liberata il 26 aprile 1945. Dopo la Seconda guerra mondiale si sposa con Arié Schek con cui vive per qualche anno in Israele a Tel Aviv. Nel 1953 con il marito e il figlio Eugenio, ritorna definitivamente a Milano dove muore il 23 giugno 1993.

La Liberazione
Sappiano soprattutto gli ebrei che non sono stati da noi mai dimenticati.
Sono le parole che Renata Caminada si sentì rivolgere da uno dei partigiani che entrarono nel carcere di San Vittore per cacciare i tedeschi il 26 aprile 1945. Milano era stata appena liberata. Da dieci giorni si trovava a San Vittore, che dal 1943 era stato requisito dai tedeschi, in particolare i raggi IV, V, VI, destinati a ebrei e detenuti politici. Primo comandante del settore tedesco era stato il maresciallo Helmuth Klemm, cui si affianca come vice il maresciallo Klimsa, poi promosso direttore. Accanto a loro il feroce caporalmaggiore Franz Staltmayer, detto “la belva” per la sua violenza, solito farsi accompagnare da un pastore tedesco. Un inferno. Ma dal 25 sera la situazione era cambiata. I tedeschi se ne sarebbero andati il giorno dopo, lasciando liberi i prigionieri. In quel momento la gioia fu tanta, c’era chi tirava fuori il tallèd, per pregare e ringraziare di essere ancora vivo, chi non vedeva l’ora di tornare a casa a riabbracciare la propria famiglia. O quello che ne restava. Chi non aveva più nulla poteva rivolgersi per l’assistenza ad enti come l’Opera Cardinal Ferrari, in attesa di una generale riorganizzazione dell’Ente Comunale di Assistenza da parte del CLN. Renata potè quindi tornare a casa, da quella famiglia sparpagliata e disgregata per le leggi antiebraiche, la guerra e i rastrellamenti. Con la fine della guerra le sorelle Caminada rientrarono a Milano. Gioconda, Renata e Micaela vennero assistite dall’ECA di via Olmetto, che sotto la gestione straordinaria di Vigorelli diede un contributo ai membri della comunità ebraica che tornavano dai campi, dalla Svizzera o semplicemente riemergevano dalla clandestinità. In quei primi giorni Milano fungeva da punto di ritrovo, ci si riuniva nei locali di via Unione 5, a Palazzo Odescalchi, in quella che durante il Ventennio era stata la sede del gruppo fascista Sciesa. Il CNL aveva deciso di donare alla comunità quegli spazi in cui erano stati allestiti un Tempio, una mensa e un dormitorio, per ospitare chi non aveva una casa.

“Poi questo partigiano ci fa: Sappiano soprattutto gli ebrei che non sono stati mai da noi dimenticati. In quel mentre c’erano dentro due vecchietti polacchi, hanno tirato fuori il tallèd e lì nella cella hanno fatto la preghiera, poi piano piano durante la giornata siamo usciti.”

“Abbiamo passato dieci giorni brutti, di angoscia e di spavento. Poi una bella sera del 25 vengono dentro, ci contano. Addio, ci siamo detti, qui ci portano via e invece c’era già la Liberazione a Milano. Sono stati dieci giorni brutti, però in quell’ultimo giorno è stato meraviglioso.”
Vita a Milano in via della Sila
La casa di via della Sila, dove tutti i figli e le figlie erano cresciuti, era stata abbandonata già dal febbraio del 1943, all’inizio dei bombardamenti che sconvolsero Milano e che andarono avanti per tutta estate. I Caminada erano lì in affitto. La madre, Eugenia Cuzzeri, faceva la casalinga, mentre il padre, Antonio, che di professione faceva il cantante, aveva partecipato alla Prima guerra mondiale e si era ritrovato con una malattia invalidante contratta nelle trincee, e per la quale godeva dal 1920 di una pensione. I figli avevano frequentato tutti l’asilo di via Disciplini e poi le scuole ebraiche di via Eupili. Amalia, la primogenita, che aveva poi sposato Emanuele Fassero trasferendosi in via dei Tre Alberghi 22, dove ebbero le due figlie Maria Antonietta ed Eugenia, e poi in viale Abruzzi 66; Elisa, che aveva sposato Guido Petraroli, con cui ebbe il figlio Giuseppe, andando ad abitare in via Lambrate 3; Giuseppe, il primo figlio maschio; Micaela, nubile, che ebbe una figlia di nome Anita, con cui visse in via Tertulliano 37 anche per tutta la durata della guerra; Gioconda, sposata con Arturo Tagliabue e con una figlia, Lidia, nata al tempo delle leggi razziali, che andarono a vivere in via Prina 1; Arturo, nato durante la Prima guerra mondiale; infine Renata, la più giovane, nata nel 1921.

“…una famiglia numerosa…”
1938: le leggi antiebraiche
Nell’agosto 1938 la famiglia venne registrata dal Censimento, provando, in seguito, a chiedere la discriminazione per la malattia contratta dal padre Antonio durante la partecipazione alla Prima guerra mondiale. Una lunga trafila burocratica, ben testimoniata dai documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Milano, che si protrasse senza esito per anni, dal 1938 al 1942, senza ottenere riscontro nonostante sussistessero i requisiti a causa, verosimilmente, della scarsa partecipazione all’attività del Partito nazionale fascista (Pnf). Con l’approvazione delle leggi antiebraiche Arturo venne espulso dalla Marina in cui era entrato come volontario imbarcandosi sull’incrociatore pesante Bolzano, insieme al suo superiore Ascoli, ebreo anch’egli. A quel punto le possibilità di lavorare erano minime, ma riuscì comunque tramite amici a trovare un impiego nella pellicceria dei Windwehr che affidarono a lui e alla sorella Renata lavori di confezionamento da svolgersi presso la loro abitazione.
Con l’intensificarsi dei bombardamenti su Milano, nel febbraio 1943, la famiglia lasciò l’abitazione di via della Sila facendo la spola tra Milano e Intra dove si era trasferita la sorella Elisa, insieme a loro spesso anche la sorellastra Emilia, figlia di Antonio e di un’altra madre, con cui avevano un forte rapporto e che fece loro da vice mamma dopo l’arresto di Eugenia.
1943-1944: arresti e deportazioni
Con la nascita della Repubblica sociale italiana la situazione divenne ancora più complessa per chi era ebreo, ed Eugenia con il figlio Arturo furono costretti per sicurezza a rifugiarsi a casa del cognato Emanuele Fassero, primo marito di Amelia, in via Arpesani, fingendo di essere suoi parenti. Fassero infatti non era ebreo, e le loro figlie Maria ed Eugenia avevano ottenuto la discriminazione. Il pomeriggio del 26 aprile 1944 vennero comunque a prenderli. Qualcuno aveva parlato. Madre e figlio vennero portati a San Vittore. Qui Arturo venne sottoposto ai lavori forzati: venne impiegato a spaccare pietre per la ditta Innocenti, industria della produzione bellica.
Nel periodo in cui venne rinchiuso in carcere un altro suo cognato, Guido Petraroli il marito di Elisa, gli aveva proposto di fuggire usando una bicicletta che lui avrebbe lasciato nelle vicinanze, ma poi le sue azioni si sarebbero ritorte contro sua madre. Non se la sentì.
Il 14 maggio 1944 Arturo e la madre Eugenia vennero mandati al campo di concentramento di Fossoli, e da lì il 16 maggio vennero caricati su un convoglio diretto ad Auschwitz, arrivato il 23 dello stesso mese. Eugenia Cuzzeri non fece più ritorno. Renata invece fu arrestata insieme alla sorella Micaela il 15 aprile 1945, portata a San Vittore e rinchiusa nel V raggio, quello espressamente riservato agli ebrei, dove fu interrogata per sapere dove si trovava il resto della sua famiglia. La figlia di Micaela, Anita, era scampata all’arresto perché in quel momento si trovava in casa di una maestra che le faceva lezioni private, mentre il fratello Giuseppe era stato avvisato all’ultimo proprio mentre portavano via le due sorelle. Per fiaccarne la tempra, Renata ad un certo punto fu rinchiusa nelle celle sotterranee del carcere. Per questo alcuni la soprannominarono anche “la Renata dei topi”.

“E così tranquillamente ci hanno portato via, a piedi, col tram. Passava il 23 e passa tutt’ora. Ci hanno messo su lì al V raggio, reparto degli ebrei.”

“Il tedesco ci faceva prendere qualcosa, l’italiano me lo tirava giù. Allora ero ragazza volevo un paio di calzettoni, qualcosa. Niente. Abbiamo messo il paltò e via. Venite con noi. Senza produrre un documento.”

Fratelli e sorelle in clandestinità
Nell’agosto 1944 la casa di via della Sila venne confiscata e passò sotto il controllo dell’EGELI che provvide a consegnarla ad alcune profughe sfollate. Gioconda con i figli Lidia e Silvio riuscì a trovare ospitalità presso un parroco nel Varesotto, da cui fu però costretta presto a scappare. Amalia, dietro il paravento del cognome acquisito, Fassero, era invece andata a Torno, sul lago di Como, nella casa di vacanza del compagno Guglielmo Maccia. Maccia era un avvocato anarchico, antifascista della prima ora, nato nell’anno dei moti di Milano e del massacro di Bava Beccaris. La loro abitazione, in ottima posizione, divenne un temporaneo rifugio e base di partenza per chi voleva scappare in Svizzera. Il trasferimento avveniva grazie a contrabbandieri e trafficanti, e il prezzo era di 3.000 lire. Metà di queste andava a questi ultimi, mentre l’altra metà serviva ad aiutare chi non poteva pagare. Il tragitto era impervio, lungo e complicato. Il rischio era altissimo. Nel luglio ’44 Maccia venne arrestato e deportato in Germania, nel campo di Dachau. Da lì venne portato a Coblenza e poi a Berlino, dove venne nominato ispettore del campo dei nostri connazionali per la regione del Reno e cercò di rintracciare Eugenia. Fuggì nel marzo 1945 e tornò in Italia, per riunirsi con la Brigata Garibaldi. L’aver aiutato alcune famiglie a fuggire gli valse l’inserimento da parte dello Yad Vashem tra i Giusti delle Nazioni nel 1995.
Il dopoguerra, il matrimonio e una nuova famiglia
Proprio al Tempio Renata Caminada conobbe Arié Schek, soldato originario di Danzica che aveva lasciato la Polonia per entrare nell’Esercito palestinese e aveva combattuto in Emilia Romagna lungo la linea gotica. Invitatolo insieme ad un’altra coppia di amici a vedere “Roma città aperta”, i due iniziarono a frequentarsi approfittando delle brevi licenze di cui Schek poteva usufruire nel novembre 1945 e si sposarono nel febbraio del 1946 nel Tempio di via Cantù. Si trasferirono in Palestina prima Arié, poi Renata, trattenuta dalle autorizzazioni burocratiche, nella seconda metà del 1946 dove Arié, come autista di carri armati e poi cuoco, partecipò alla guerra di indipendenza del 1948. Fecero la spola tra l’Italia e Israele, dove nacque il figlio Eugenio nel 1947, per qualche anno per poi ritornare definitivamente a Milano nel 1953, spinti dalla nostalgia di Renata per i fratelli e le sorelle.
La maggior parte dei Caminada rimase a vivere in Lombardia, con l’eccezione del fratello maggiore Giuseppe che si trasferì con la famiglia a Padova, mentre Arturo emigrò in Svezia; l’esperienza di Auschwitz rimase, come per molti deportati, un non detto di cui non si parlava, l’unica cosa che Arturo era solito dire, secondo le testimonianze dei fratelli, era che era meglio che la mamma fosse morta subito invece che soffrire un’ora sola di quello che lui aveva dovuto sopportare.
Renata Caminada è morta a Milano il 23 giugno 1993.

“Ma dai, vestiti! Vai al Tempio” … “Sai da quando sei entrata c’è quel militare lì che non fa altro che guardarti” … E così ci siamo conosciuti

“Il 24 febbraio 1946 ci siamo sposati in via Cantù perché ci ha sposati un rabbino militare, un rabbino ungherese.
Sono andata in Israele, dopo, lui è partito prima in luglio, agosto. Prima lui abitava in Keren Kayemet a Tel Aviv, poi noi abbiamo abitato in rehov (via) Dizengoff. Sono andata nell’ottobre 1946, Eugenio è nato nel 1947, sono tornata nel 1949 … e poi sono ritornata in Italia definitivamente nel 1953. Sentivo la nostalgia di tutte le mie sorelle.”